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Perché parliamo ancora di Open Innovation? Non è scontata?

Dal 2003 ad oggi, l’approccio all’Open Innovation è stato ampiamente diffuso e analizzato nel mondo scientifico e professionale del management, ma la sua applicazione non è affatto scontata. Richiede partnership non ovvie, che offrono conoscenze, idee, competenze e informazioni non convenzionali e a volte impensabili.

 

Oggi, le sfide per le aziende sono veramente tante: pandemie, cambiamento climatico, transizione energetica, disuguaglianze sociali. Sono prove di grande complessità e per fronteggiarle è necessario integrare conoscenze diverse, riuscire a farle dialogare e integrarle. Le aziende devono trovare modi per leggere e interpretare questi nuovi fenomeni e ciò è possibile solo grazie alla contaminazione tra saperi apparentemente distanti tra loro. Occorre infatti padroneggiare:

 

  • Saperi verticali, per comprendere fenomeni specifici e spesso ambigui;
  • Saperi trasversali, per trovare e porre in evidenza i ponti tra le conoscenze verticali, generando una sintesi, un modello, un progetto, una sperimentazione.

 

Viviamo in un contesto globalizzato, interconnesso e dinamico, dove non esistono più luoghi esclusivi di produzione del sapere: perciò risulta fondamentale creare un dialogo tra imprese, startup e realtà economiche, culturali e sociali. L’Open Innovation si occupa in modo sistemico di relazioni, collaborazione e partnership tra risorse esterne rispetto al perimetro aziendale. Grazie a queste relazioni, essa promuove l’interazione tra competenze di differenti settori e offre soluzioni nuove a problemi noti, oppure soluzioni multidisciplinari e aggiornate in un’ottica orientata al progresso e alle novità.

 

Ci sono degli ostacoli che questo paradigma non è ancora stato in grado di superare, malgrado Henry Chesbrough - nel libro “Il futuro della Open Innovation” - dedichi proprio il primo capitolo al paradosso esistenziale: la tecnologia sta accelerando mentre la crescita della produttività e dei redditi rallenta o è ferma. Chesbrough afferma che non è sufficiente creare nuove tecnologie; dobbiamo pensare anche a disseminarle ampiamente e ad applicarle, se vogliamo trarne vantaggi economici.

 

Molte aziende ritengono che l’innovazione sia un lusso: di conseguenza, alla prima difficoltà economica, la escludono, perdendo così in competitività. Altre aziende, invece, si lasciano affascinare dall’ultima novità tecnologica e si impegnano per applicarla repentinamente, senza prima chiedersi, piuttosto, come quella tecnologia potrà scalare per poter essere redditizia.

 

In generale, si presta poca attenzione alla diffusione e all’effettivo utilizzo delle tecnologie nella società.  Ne sono alcuni esempi l’Intelligenza Artificiale e la Data Science: sono ancora pochissime le aziende che ne fanno un uso sistematico.

 

È possibile che le innovazioni stiano interessando ancora poche aziende, probabilmente di minima portata, e che non riescano perciò a dimostrare in modo concreto il loro effettivo potenziale. Inoltre, deve essere chiaro che le nuove tecnologie possono consentire alle imprese di fare cose nuove anziché migliorare semplicemente ciò che già viene fatto.

 

Solo se sviluppiamo processi aziendali in grado di generare, diffondere e utilizzare al massimo le tecnologie innovative sostenibili, riusciremo a dare un nuovo impulso alla crescita della produttività e dei salari. Ed è necessario che questo approccio si diffonda anche nelle PMI, non solo nelle grandi aziende.

 

Alcuni atteggiamenti mentali, inoltre, ostacolano l’affermarsi dell’Open Innovation, tra questi:

 

  • Not Invented Here: il bisogno di esercitare la propria supremazia su altre persone esterne all’azienda con le quali, invece di collaborare, si entra in competizione poiché minano la reputazione o l’ego del manager, soprattutto se di un’azienda prestigiosa.
  • Potrebbe non funzionare veramente: di nuovo, la propensione al rischio non sembra appartenere al DNA delle medie e grandi aziende che faticano ad accettare di investire risorse nell’esecuzione di test e nella sperimentazione.
  • Il cambiamento è faticoso e dirompente: anni di ricerche psicologiche, sociologiche ed economiche evidenziano la resistenza al cambiamento, sia esso negativo o positivo, perché le abitudini “regalano piacevoli soggiorni” nelle aree di comfort. Le aziende devono integrare le nuove soluzioni con i loro processi consolidati e ciò determina un dover abbandonare la routine in favore di processi estranei, che, solo con il tempo, diventeranno la nuova abitudine. Questa transizione tra un’abitudine e un’altra non è facile, non è scontata e non è gratuita. La saggezza degli esperti in gestione del cambiamento ci dice che qualsiasi alterazione della routine lavorativa è percepita negativamente a causa dell’interruzione che provoca, piuttosto che celebrata per il miglior risultato che produrrà.

 

Niente di tutto questo è insormontabile, ma spesso accade che si preferisca una soluzione già esistente in un settore di business limitrofo, che questa abbia il sopravvento e che la fatica dell’innovare insieme venga ritenuta eccessiva. I manager devono essere molto bravi a rendere consapevoli le persone in azienda delle pressioni competitive nel mercato e di come l’Open Innovation possa essere un modo per superare i competitor.

 

A questi temi si aggiunge il fatto che il termine “Innovazione” è molto inflazionato e spesso usato ambiguamente, il che diminuisce il valore che esso può generare.

 

Chiariamo dunque cosa non è l’Open Innovation:

 

  • Una campagna di comunicazione e marketing per attrarre l’attenzione di clienti, lead, partner e talenti;
  • Un modo di fare innovazione a basso costo. Non si può risparmiare sull’acquisto di materie prime e sulle retribuzioni di chi lavora al progetto;
  • Una legittima manovra per chiedere alle startup di lavorare gratuitamente e cedere quote, per poi essere al servizio dell’azienda leader dell’ecosistema;
  • Comprare una nuova tecnologia, che è la tendenza del momento. (Ricordo un’azienda importante che aveva acquistato una piattaforma di big data da alcuni milioni di euro e in un anno vi aveva migrato un database strutturato);
  • Un hackathon per fare recruiting e fare proprie le idee generate, ricompensando con gadget, pizza e birra. (Ho partecipato ad un paio di hackathon, non è “fantainnovazione”, è realtà);
  • Una call for idea, dove la proprietà intellettuale è dell’azienda organizzatrice ma ciò non viene mai specificato.

 

In un momento storico come quello che stiamo attraversando, dove le problematiche economiche, sanitarie e sociali sono sempre più frequenti e interconnesse tra loro, non si può scherzare. Innovare è vitale per il futuro dell’umanità.

 

Dobbiamo risolvere problemi mai affrontati prima e abbiamo bisogno di nuove soluzioni. Necessitiamo di andare veloci, di decifrare il paradosso esponenziale (produrre di più e generare maggiori redditi) e l’Open Innovation è un modello che può essere di grande aiuto in quanto permette di avere costi interni minori, un ridotto time to market ed una sostanziale riduzione del rischio.

 

Non si tratta di buonismo, né di generosità e nemmeno di buon senso. Siamo costretti ad abbandonare il nostro egocentrismo, a scegliere la collaborazione, la competizione, le partnership, la condivisione della conoscenza. In questo mondo in continua accelerazione, e in un’economia di “cigni neri”, l’innovazione non è più una scelta ma un obbligo.

 

 

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Tag: Innovation