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L’intrigante relazione tra pandemia e Open Innovation

La pandemia ha portato un’accelerazione digitale enorme. Gartner stima che solo nel 2020 si siano raggiunti i risultati abitualmente conseguiti in 5 anni. Le nuove abitudini digitali come l’eCommerce, il software as-a-service, l’istruzione online, lo smart working e la telemedicina continuano a crescere, anche se con velocità diverse. Si pensi anche ai metodi d’avanguardia usati per identificare rapidamente il vaccino e i nuovi farmaci per il Covid-19. L’esperienza vissuta ha portato alla ricerca di tecnologie sempre migliori, un trend che offre opportunità allettanti per le imprese capaci di fornirle.

 

Le aziende pubbliche e private di tutto il mondo hanno vissuto un importante momento di discontinuità e si sono dovute adeguare al cambiamento nel comportamento e negli stili di consumo dei clienti, a modi diversi di lavorare, interagire e fare business. Ne è scaturita una dinamica interessante che ha portato a nuove partnership e alleanze per perseguire opportunità anche inedite, rafforzare le reti di approvvigionamento e far crescere i mercati serviti.

 

Per tutte queste ragioni è stato ripreso a gran forza il modello di Open Innovation. La prima definizione di Open Innovation risale al 2003, nel saggio di Henry Chesbrough “Open Innovation, the new imperative for creating and profiting from technology”: “L’innovazione aperta è un processo di innovazione distribuita che coinvolge flussi di conoscenza attraverso i confini dell’organizzazione per ragioni sia monetarie che non monetarie in linea con il modello di business.” L’autore – professore e Direttore Esecutivo del Garwood Center for Corporate Innovation presso la Haas School of Business dell’Università della California – parafrasando questa definizione scrive: “L'Open Innovation è l’antitesi dell’integrazione verticale, nella quale fai tutto da solo all’interno delle tue quattro mura aziendali. Si tratta di un processo collaborativo che implica l’introduzione di conoscenze esterne per le tue attività di innovazione e, allo stesso modo, consentire alle idee non utilizzate nella tua organizzazione di uscire per essere adottate da altri nelle loro attività di innovazione”. Non si può dire però che quello dell’Open Innovation sia stato un modello dall’immediato successo in Europa, e in particolare in Italia. Anche se il modo di gestire la R&S in azienda facendo affidamento solo sulle risorse interne (dipendenti, brevetti, conoscenze aziendali), sui risultati di appositi test e sugli ingenti investimenti di capitali nei propri laboratori aveva già mostrato i propri limiti ben prima della pandemia.

 

Se questo modo diverso di fare innovazione utilizzando anche fonti e risorse esterne all’azienda non ha preso molto piede nei primi 20 anni del XXI secolo, ora è diventato un imperativo. L’accelerazione senza precedenti del mondo delle tecnologie fa sì che ci sia una forte competizione, per cui nessuno si può permettere il lusso di procedere lentamente correndo il rischio di essere escluso dai giochi globali.

 

L’innovazione chiusa è ancora molto attuale e consiste nello sviluppare in azienda nuovi prodotti e servizi utilizzando unicamente risorse aziendali, sia in termini di competenze che finanziarie. Tutto si racchiude nel team di R&S, poi altre funzioni aziendali si occupano della produzione, della commercializzazione e della distribuzione. Tutto il processo è molto controllato.

 

 

In passato le aziende investivano in ricerca e sviluppo interna più dei loro concorrenti, assumevano i professionisti migliori e con il successo ottenuto reinvestivano in R&S per poter arrivare a nuove scoperte rivoluzionarie. Ci sono stati però due fattori importanti che hanno minato il circolo virtuoso che ha sempre permesso a questo modello di funzionare:

  • la maggiore mobilità delle persone che lavorano nella ricerca e sviluppo, che ha reso molto difficile per le aziende controllare le proprie idee e competenze;
  • la crescente disponibilità di capitali di rischio privato, che hanno contribuito a finanziare nuove imprese.

 

In sintesi, se una società che ha finanziato una ricerca che ha condotto a scoperte promettenti non le persegue tempestivamente, le persone coinvolte potrebbero portare avanti il progetto da sole, per esempio fondando una startup finanziata da capitale di rischio.

 

 

Una differenza molto importante tra le aziende che usano la Closed e l’Open Innovation sta nel diverso modo di valutare le idee:

  •  i “falsi positivi”, cioè le cattive idee che inizialmente sembrano promettenti, vengono facilmente eliminati in entrambi i modelli di innovazione;
  •  i “falsi negativi”, idee che in origine sembrano dei fallimenti ma che poi si rivelano preziose, non vengono prese in considerazione dal modello di innovazione chiusa, mentre hanno una speranza nel modello aperto, dove sperimentando e rischiando di più si ha la possibilità di scoprire il successo nel sommerso, in ciò che non è evidente nell’immediato.

 

Un’azienda concentrata nel modello chiuso non rischia in ambiti che non si avvicinano al suo modo di lavorare e ai prodotti/servizi che fanno parte del suo business. Questo approccio si dimostra controproducente nel momento in cui un’idea studiata a lungo e successivamente abbandonata si rivela essere disruptive e di grande successo, con un enorme valore commerciale.

 

Queste riflessioni dimostrano dunque la superiorità del modello di Open Innovation? No, ma ci suggeriscono l’opportunità di adottare approcci diversi a seconda delle sfide che si vogliono o si devono affrontare.

 

Per quanto riguarda i prodotti core dell’azienda, un approccio di Closed Innovation, che monitora costantemente quello che avviene fuori all’azienda, può essere l’ideale.

 

Per la sperimentazione di prodotti sviluppati con tecnologie nuove, l’Open Innovation è più opportuna perché può beneficiare di abbondanti conoscenze, che devono essere utilizzate velocemente per generare valore per i vari partner (startup, università, centri di ricerca e altre organizzazioni esterne).

 

Sintetizzando, è possibile affermare che le diverse attività condotte da un’azienda si possono disporre lungo un continuum, da sostanzialmente chiuse a completamente aperte. A un estremo troviamo la sindrome del Not Invented Here (NIH), che affligge molte organizzazioni di successo inducendole a rigettare, squalificare i prodotti che non sono nati all'interno dell'azienda, non intuendone il potenziale. All'estremo opposto si colloca invece l'approccio aperto nei confronti di tali innovazioni.

 

Oggi le conoscenze sono diffuse e c’è tanto bisogno di innovazione, visti anche i cambiamenti determinati dalla pandemia: non possiamo perdere l’opportunità di sperimentare nuove idee, supportati da una logica di innovazione aperta che unisce le conoscenze esterne alla ricerca e sviluppo interni. È questo cambiamento del focus ad offrire nuovi modi per creare valore. Ciò non toglie che le aziende debbano ancora convertire – seppur con difficoltà e fatica - i risultati promettenti della ricerca in prodotti e servizi che soddisfino le esperienze dei propri clienti.

 

In breve, le aziende che avranno successo saranno quelle in grado di trovare un perfetto equilibrio tra Close Innovation e Open Innovation, ma che saranno anche in grado di sovvertirlo, quando necessario. La Close Innovation rimane la scelta migliore nel momento in cui si vuole migliorare l'operatività, i processi. L'Open Innovation, d’altro canto, crea maggiore valore nel momento in cui si ha la necessità di essere più dirompenti e le proprie attività o prodotti devono avanzare in modo efficace e veloce.

 

 

Qual è la strategia di innovazione della tua azienda?

 

Quale vorresti venisse scelta per i prossimi progetti?

 

 

 

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Tag: Innovation